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Anno 2001.
Fano.
Capitaneria di porto.
Venni incaricato dal nostromo di allestire il presepe della "casermetta". La casermetta era l'alloggio-dormitorio in cui venivamo stipati come brandelli di stoffa vecchia da usare per minuzie e bagattelle di nessuna utilità. Si stava come dei cenci insomma.
Io e Francesco recuperiamo uno scatolone con su scritto – da mano tremante e in un rosso sbiadito da immemori sospiri di noia di chissà quanti altri militari – “PRESEPRIO!”. E vabbe’.
Apriamo la scatola e subito ci salta all'occhio un paffuto e ceramico bimbo-cristo. Iniziamo a farlo giocare. Lo lanciamo in alto e lo riprendiamo al volo in attesa di un suo segnale, foss'anche un tenue risolino infante. Esistenza vuole che io abbia le mani di burro e una presa poco affidabile: il cristo cade, gli vola la testa e le braccia si spezzano.

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La casermetta era dotata di tutto. Tutto ciò che non sarebbe mai servito a niente e nessuno: creste commemorative, oblò dismessi, bitte divelte, boe forate e cenci. Soprattutto cenci. Ma nessun segno di colla.
Così, preso dall’estro di quell’artista nullafacente e blasfemo che da sempre dorme in me, mi adoperai, con mela e coltellaccio, per ricreare una testa al decollato.
Contemplai quella testa per giorni e giorni, sempre più inquietante man mano l’avvicinarsi del natale; iniziò a marcire, annerire, decomporsi. Anche la putrefazione ha un suo fascino. Francesco decise di disegnare delle lacrime di sangue sul volto del mammolo. Le braccia, invece, non le trovammo, ma ridemmo nel pensarlo crocefisso l’anno successivo, poco prima di pasqua, dai coglioni.

Oggi mi pento. Mi pento di non aver fotografato la successione di quella testa guasta.

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