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Bodini partecipava al rinnovato impegno di denuncia sociale che permeava la letteratura italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta collasgarba.blogspot.com/2022/

"Sulla soglia del portone si fermò un momento per godere il tepore del sole e la freschezza d’una tramontanina invernale che la fece rabbrividire: poi si strinse nelle spalle e si avviò a passi rapidi verso i Giardini Pubblici. Li attraversava due volte al giorno, cambiando spesso di viali, contenta come una bambina in vacanza. Quella possibilità di andare e venire sola, fuori di casa, le dava un senso di libertà e di padronanza che le faceva bene. […] E in certi giorni camminava con baldanza, a passi sicuri, come se avanzasse alla conquista del mondo".
Maria Volpi Nannipieri (Mura), 1930

«... anche perché il problema fondamentale della poesia, soprattutto in Italia, è riuscire ad aggredire questa lingua sempre più logorata dall’uso che ne fanno i mass-media, sempre più negletta e infarcita di forestierismi, soprattutto di anglismi. E la poesia è non soltanto fare la poesia ma anche ritrovare la lingua».
Fernando Bandini, 2001

"Ci sono dei momenti in cui il dialetto si impone in maniera imperiosa, e non c’è possibilità di scelta: cioè non ci sono cose che possono essere scritte tanto in italiano quanto in dialetto, come ahimè pensano alcuni poeti in dialetto che fanno addirittura gli sperimentali. Ecco che per me le poesie in dialetto, che pure io personalmente amo, sono sempre nate in via d’eccezione".
Fernando Bandini, 2001

"Io dissuado dallo scrivere in dialetto perché mi sono accorto che da un po’ di tempo il dialetto possiede una posizione di privilegio, con tendenze alla sopravvalutazione rispetto a quello che effettivamente sta producendo. In sostanza, attraverso il dialetto si sta realizzando quel tipico monolinguismo novecentesco che era caratteristico della poesia negli anni trenta, quaranta e cinquanta, con fughe costanti verso l’idillio."
Fernando Bandini, 2009

«Davanti a queste finestre, e a questo nulla, mi è accaduto spesso di pensare a Zardino... sotto ... il Monte Rosa.... un “macigno bianco” - così lo descrisse all’inizio del secolo il mio babbo matto, il poeta Dino Campana - attorno a cui “corrono le vette / a destra a sinistra all’infinito / come negli occhi del prigioniero”. Campana era arrivato a Novara una sera di settembre, in treno, senza vedere niente perché fuori era già buio e la mattina del giorno successivo, attraverso le inferriate di un carcere, gli era apparso il Monte Rosa in un “cielo pieno di picchi / bianchi che corrono”: un’immagine inafferrabile e lontana come quell’amore che lui allora stava inseguendo e che non avrebbe mai raggiunto, perché non esisteva… Una chimera!».
Sebastiano Vassalli, La chimera, Torino, Einaudi, 1990

"Mondo, sii, e buono,

esisti buonamente,

fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,

ed ecco che io ribaltavo eludevo

e ogni inclusione era fattiva

non meno che ogni esclusione;

su bravo, esisti,

non accartocciarti in te stesso in me stesso

Io pensavo che il mondo così concepito

con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato

fosse soltanto un io male sbozzolato

fossi io indigesto male fantasticante

male fantasticato mal pagato

e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”

un po’ più in là, da lato, da lato

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere

e oltre tutte le preposizioni note e ignote,

abbi qualche chance,

fa’ buonamente un po’"

Andrea Zanzotto, Al mondo

'Eppure tra questa che seppi menzogna,

nella vita, rabbioso m’attardo.

Ecco, è come se verso la brughiera

che è eletta dalla lepre

e che il pioppo circonda e vuole a

ombroso letto ai riposi

della sua corona che perisce

nei giorni, è come se

in questo andare che non ha ancora

senso, ma già rifiuta la paura

rifiuta il silenzio – ah, individuata

e subito confusa legge, bruto

plasma, densissima lingua -

io sia colui che “io”

“io” dire, almeno, può, nel vuoto,

può, nell’immenso scotoma,

“io”, più che la pietra, la foglia, il cielo, “io”:"

Andrea Zanzotto, IX Ecloghe, Mondadori, 1962"

"Le belle querce in fondo al prato si aprono
con rami e il cielo le porta. Quelle
che per la viottola vengono giù
sono due ragazze graziose che hanno lasciato
lungo la strada l’auto. Scendono
per vedere il lago, ridono contente.
Sono abbastanza lunghi ancora i pomeriggi.
Con sguardi amichevoli mi guardano passando.
Senza parlare mi dicono
che il senso della scena vuole molta attenzione.
Sento i loro passi che van via su gradini e foglie.
Il dolce sguardo d’ansia diceva
che non esistono le belle querce mai
ma soltanto creature in attesa".
Franco Fortini

«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto... Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 1940

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