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Robot Umanoidi Made in China: Un Mercato da 75 Miliardi di Yuan Entro il 2029

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Stefano Pittaluga nasce a Campomorone (Genova) il 2 febbraio 1887. I ritratti che rimangono di lui lo descrivono come un uomo schivo <14, di modeste origini e di scarsa cultura, ma dotato di una ferrea volontà, «un ligure tenace e appassionato <15» che gli valse il titolo di «principale fautore della rinascita del nostro cinema, riportato, dopo gli anni oscuri della crisi, a un periodo di rinnovata floridezza <16». Ciò che generalmente emerge dagli articoli di giornale e dalle note biografiche, connotati dai toni enfatici tipici dell’aneddotica, è proprio una discrasia tra la personalità dell’uomo ed i risultati che ci si aspettava avrebbe realizzato per il cinema italiano e quelli che poi effettivamente realizzò. A questo proposito il profilo più celebre è tracciato da Ludovico Toeplitz de Gran Ry: “[…] Andai alla sede della Cines per conoscere Stefano Pittaluga. Mi ero immaginato di trovare un personaggio imponente, uno straordinario concretizzatore di sogni e di opere elevate ed invece egli si presentava come un modesto viaggiatore di commercio, indiscutibilmente astuto nel comprare e rivendere la sua roba, ma facendolo con l’umiltà dell’uomo venuto dal nulla, che non aveva avuto i mezzi per studiare né il tempo poi per coltivarsi” <17.
Pittaluga incominciò l’attività nel settore cinematografico come piccolo noleggiatore di film per il territorio della Liguria <18 e dopo la Prima Guerra Mondiale si trasferì a Torino dando vita alla Società Anonima Stefano Pittaluga. Secondo alcuni commentatori dell’epoca la Pittaluga si distingueva all’interno dell’ambiente cinematografico perché era la prima società “seria ed onesta” che sorgeva in Italia a dispetto di tutte quelle iniziative che continuavano a comparire avendo come unica finalità la speculazione. Le prime pellicole vengono distribuite nel 1912 (secondo la ricostruzione di Vittorio Martinelli) e sono di nazionalità danese (4), tedesca (13), italiana (21) e americana (2). I primi “umili” anni di attività vengono ricordati, con toni enfatici, in un altro dei pochi ritratti che rimangono del genovese: «Viaggiava tra Genova e Torino a collocare i primi filmetti. Viveva in treno; arrivando sui luoghi la mattina e correndo tutto il giorno per i suoi traffici. Cominciò a lavorare con la produzione degli altri, per gli schermi degli altri; poi lavorò per gli schermi propri, infine riuscì a produrre da sé, concludendo industrialmente la sua meravigliosa carriera di commerciante <19».
Progressivamente la società era riuscita a costruire un circuito di sale che si distribuiva lungo tutto il territorio nazionale: Veneto, Friuli, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia, Campania. La Società Anonima Stefano Pittaluga fu istituita ufficialmente il 19 marzo 1919 con capitale sociale di 2.000.000 Lire, ripartito tra: Stefano Pittaluga (800 azioni), Vittorio Sacerdote, Levi Ottavio, Artom Vittorio, Ferrero Giovanni, Chiarella Achille, Levi Cesare, Molineri Luigi, Marco Carlo, Luca Attilio (ciascuno con 120 azioni). Lo scopo sociale della società è «la compra, la vendita ed il noleggio di pellicole cinematografiche», mentre l’acquisto, la cessione e la locazione delle sale cinematografiche è affidata alla Società Anonima Immobiliare Toscana che costituitasi nel 1921 «con capitale sociale di un milione ha nel Pittaluga il suo Amministratore Delegato». Attraverso l’Anonima Immobiliare, che ritroveremo più avanti con il nome di Società Anonima Immobiliare Cinematografica Italiana (S.A.I.C.I) verranno assorbiti i teatri di posa della Fert ed il complesso immobiliare della Itala Film, dove si trasferirà la Direzione Centrale della Sasp <20.
Alla fine degli anni venti l’impero pittalughiano, per ciò che riguarda l’esercizio dei cinematografi, si componeva di circa cento sale (in gestione diretta o in affitto) e questo aveva generato non pochi malumori nel settore: gli esercenti accusavano la società di operare in un regime di totale monopolio e protestavano contro il fatto che la SASP si accaparrava le migliori produzioni europee e americane: Pittaluga «aveva invaso del suo nome tutti i cinematografi d’Italia e i manifesti e i “titoli di testa” di quasi tutti i film che si proiettavano nel nostro paese <21». All’epoca delle manovre pittalughiane, l’esercizio era caratterizzato dalla presenza di pochi gruppi (Leoni, Fiori, Pittaluga, Orlandini, Scogli, Frascaroli, Scalzaferri, Corona) e da piccoli esercenti, definiti «cinque o seicento proprietari bizzosi e rissosi <22». Le riviste di settore avevano gridato quindi al pericolo del trust pittaluga <23: «Noi abbiamo dunque una società che, dopo aver asservito la zona ligure, quasi assorbita la piemontese, si appresta a fare altrettanto con la laziale, tentando altresì di allungare i suoi tentacoli in Lombardia e, perché no, anche nel meridione. Siamo alla presenza di un tentativo di trust bello e buono. L’Anonima Pittaluga tende ad accaparrarsi tutti o quasi tutti i cinematografi italiani».
Dall’altra parte c’era invece che considerava la strategia di Pittaluga come indispensabile per poter fronteggiare la concorrenza americana. «Pittaluga capì che era arrivato il suo momento: il momento in cui il primo coraggioso che si fosse slanciato avanti avrebbe acchiappato al volo la vittoria. Fu perfettamente umano il desiderio di essere lui il vittorioso. A chi avrebbe dovuto lasciare la palma? Ai concorrenti italiani? Peggio ancora: a quelli stranieri? E s’avventò a Roma, conquistando con la Ditta Fratelli Scalzaferri e l’accordo con Barattolo, la piazza. Il capitale della sua società, da due, era salito a otto milioni. Successe un putiferio. Chi strillava, chi si proponeva di chiamare il Governo in soccorso, chi si scagliava contro la distruzione della concorrenza: e nessuno capiva che la formazione d’un blocco italiano era indispensabile per fronteggiare lo straniero. Io proclamai su questo giornale la necessità di un blocco contro l’Estero, esortando i noleggiatori delle rimanenti zone a tentarlo per proprio conto visto che Pittaluga s’era fermato a Roma <24».
Dopo aver consolidato il noleggio e l’esercizio cinematografico, Pittaluga si dedicò alla produzione di pellicole, prima riattivando gli stabilimenti della Fert e della Rodolfi Film di Torino, e poi acquistando quelli della Cines: «con la sua fibra d’uomo, coi suoi denari di industriale dapprima fortunatissimo aveva ideato la Cines come matrice e officina di una cinematografia italiana completa, capace di affrontare tutte le esigenze della massa <25».
Con l’acquisizione degli stabilimenti di Via Vejo la società si avviava verso la produzione di pellicole sonore: i teatri di posa furono dotati di moderni impianti <26 ed il sonoro venne accolto con grande favore dal momento che si credeva di poter dare nuovo slancio al cinema nazionale. In un’intervista del 1929 il “genovese” aveva dichiarato: «Quando si è vista, o sentita, una pellicola sonora, non si sopportano più le altre <27».
Non sappiamo con certezza se la scelta di integrarsi a monte fu compiuta per quella lungimiranza di vedute che gli riconoscevano i contemporanei <28; d’altronde la SASP si era fino ad allora occupata di quelle branche della filiera cinematografica caratterizzate da un più stretto contatto con il pubblico: «se c’era uno che conosceva la vasta platea italiana, questi era Pittaluga <29». Un esercente conosceva i gusti degli spettatori ed in funzione di questi componeva il programma delle sale: integrandosi a monte Pittaluga avrebbe potuto produrre film che sarebbero poi stati distribuiti all’interno del suo capillare circuito di sale.
Pittaluga «sapeva bene come agiva sui nervi di una folla nostrana il meccanismo di un film, perché egli ne conosceva proprio il meccanismo, il gioco del funzionamento <30». Pittaluga sembrava avere le idee molto chiare su quale fosse il cinema più amato ed apprezzato dal pubblico: “Il vero cinema, quello che riempie le sale, che fa singhiozzare le folle e salva gli incassi, non è fatto di film d’eccezione né di films basati sulla vita di ogni giorno. Il pubblico cinematografico vuol astrarsi dalla realtà, vuol evadere, vuol sognare, vuol sentirsi milionario” <31.
L’attività produttiva della SASP non seguì una linea particolarmente creativa: si cercò sempre di realizzare pellicole di sicuro richiamo commerciale ed in alcuni casi si tendeva a riproporre film che avevano riscosso successo all’estero, per garantirsi una distribuzione senza troppi rischi. Lo stesso Pittaluga informava della necessità di seguire queste direttive nella relazione del 1923: «E’ nostro intendimento di fare della produzione artistica, ma principalmente della lavorazione commerciale <32». Una frase piuttosto ambigua che suggerisce la promessa di un miglioramento qualitativo del cinema italiano, con un rinnovamento stilistico, ma soprattutto il reale interesse della società: una lavorazione commerciale sicura, in grado di garantire incassi al botteghino. Sembra che lo stesso Pittaluga intervenisse con proprie direttive nella stesura dei soggetti, come suggerisce l’indicazione N.N posta su alcuni testi contenenti i soggetti e le sceneggiature dei film prodotti dalla Cines-Pittaluga <33. A differenza degli altri produttori italiani, la Sasp non sarebbe neppure dovuto sottostare alle leggi competitive di un mercato in cui vigeva la totale assenza di cooperazione tra la produzione, la distribuzione e l’esercizio.
Tornando all’integrazione verticale, dobbiamo inoltre considerare che gli anni venti rappresentarono il periodo di maggior successo dello “Studios” hollywoodiano verticalmente integrato e che le cinematografie europee guardavano alle grandi compagnie statunitensi e alla loro organizzazione come ad un modello da replicare, per cercare di rispondere all’invasione di pellicole americane <34: un perfetto coordinamento tra produzione, distribuzione ed esercizio da una parte e dall’altra la valorizzazione gli asset immateriali e la stabilizzazione del rapporto contrattuale con il personale tecnico ed artistico.
Oltre alle spinte che potevano essere giunte dalle forze competitive del mercato nazionale ed internazionale, la scelta di Pittaluga fu altresì influenzata dalle pressioni politiche e dall’importanza occupata in quegli anni dal tema della rinascita cinematografica. Le relazioni con il fascismo rimangono ancora un punto oscuro nella vicenda della SASP – e ciò è principalmente dovuto all’assenza di documentazione che come è spesso accaduto per il cinema italiano è andata perduta oppure non è più consultabile – ma giocarono sicuramente un ruolo importante se Pittaluga fu insignito ufficialmente del compito di salvataggio del cinema italiano e se nel 1931 fu approvata la legge n. 918 del 18 giugno con cui erano assegnati dei premi nella misura massima del 10% degli incassi lordi realizzati da ogni singolo film a coloro che «dimostrino di aver prodotto una pellicola italiana considerata nazionale ai fini della presente legge». Di questa legge si era fatta portavoce una delegazione guidata da Giuseppe Bottai e Leandro Arpinati e composta da Pittaluga, Barattolo, Gustavo Lombardo e Nicola De Pirro <35. La legge sembrava escogitata ad uso e consumo della SASP dal momento che in quegli anni era l’unica casa di produzione realmente attiva sul territorio nazionale. Pittaluga scomparve prematuramente il 5 aprile del 1931, lasciando dietro di sé giudizi contrastanti: uomo esemplare da una parte, e dall’altra «retrogrado proprietario di sale piuttosto che un creatore <36».
Il 30 aprile dello stesso anno fu designato come amministratore delegato Guido Pedrazzini che assunse Sebastiano Arturo Luciani all’Ufficio soggetti, sceneggiature e musiche e chiamò come collaboratore dell’ufficio Emilio Cecchi. Nell’aprile del 1932 avvengono ancora dei cambi: Pedrazzini rassegna le dimissioni e viene sostituito temporaneamente da Vittorio Artom e Ludovico Toeplitz de Gran Ry <37; Cecchi è nominato direttore della produzione. I giudizi sull’operato di Cecchi non saranno particolarmente positivi, almeno per ciò che riguarda le capacità organizzative e gestionali: «il Cecchi è stato un fallimento clamoroso: incompetenza, incertezze, timore. Tutto questo (il dissesto
produttivo e finanziario della SASP) si è avuto per la mancanza di un capo, di un lavoratore, di un’anima di un appassionato del mestiere; per l’assenza di un direttore della produzione». Nel 1933 Toeplitz abbandona la SASP – per costituire a Londra una propria casa di produzione, la London Film con il registra Alexander Korda – e viene sostituito dal gr. Uff. Mario Solza, nominato amministratore unico. Cecchi esce di scena nel 1934 e la sua poltrona viene occupata da Paolo Giordani, un noto impresario teatrale. Inizialmente si procede ad una riorganizzazione del complesso gioco di scatole cinesi della SASP, poi si decide di abbandonare la produzione diretta, orientandosi verso l’affitto degli stabilimenti tramite un’apposita società costituita nel gennaio 1935: la Società Anonima Italiana Stabilimenti Cinematografici con presidente Carlo Roncoroni e direttore Guido Oliva. «La Cines aveva cessato di essere l’espressione unitaria e volitiva di un uomo <38» e lasciava spazio ai cosiddetti Indipendenti, sul cui contributo alla ripresa cinematografica italiana ci saranno opinioni contrastanti.
Pochi mesi dopo (il 26 settembre) gli stabilimenti Cines furono distrutti da un incendio e tale circostanza fornì l’occasione per la messa in liquidazione della SASP e per l’avvio del progetto Cinecittà.
[NOTE]
14 «Modesto e insofferente d’ogni forma di vanità, il suo carattere di orso non fa che riprovare quanto egli fosse uomo di sostanza e per la sostanza. Tra l’altro rifuggiva dalla pubblicità personale, e , ben diverso dai suoi colleghi americani, aveva ripugnanza dei ritratti. Questo impresario di fotografie non lascia di sé che poche istantanee di reportage», A. G. Bragaglia, Stefano Pittaluga, “Cinema”, 31 gennaio 1953, n.102.
15 A. G. Bragaglia, Stefano Pittaluga, “Cinema”, 31 gennaio 1953, n.102.
16 «Pittaluga ha certamente commesso più errori che non ciascuno degli uomini attualmente operanti nel cinematografo. Ma ha costruito e vinto tanto quanto tutti costoro, messi insieme, non hanno e non potranno più: ha restaurato la produzione italiana». La dichiarazione è attribuita al registra Blasetti ed è riportata nell’articolo citato di Bragaglia
17 «Parlava con un tono così dimesso che stringeva il cuore e sentii quasi vergogna per i miei anni di studio, le mie ricerche storiche ed artistiche, insomma per tutta la mia cultura», L. TOEPLITZ, Ciak a chi tocca, p. 94.
18 Bernardini fa risalire l’attività di Pittaluga ai primi anni dieci: «A Genova si faceva avanti in quegli anni un giovane intraprendente, che iniziò, a quanto pare, l’attività nel cinema collaborando all’impresa del padre Giacinto, l’accomandita Pittaluga & C. (costituita a Genova fin dall’ottobre 1907 per l’esercizio del cinematografo Centrale. Verso la metà del 1911, Stefano Pittaluga entrò nel commercio cinematografico (assumendo l’esclusiva di alcuni film danesi e americani) con la ditta Pittaluga & Tassoni, dal cui scioglimento nacquero nell’aprile dell’anno successivo le ditte Stefano Pittaluga e Francesco Tassoni. Pittaluga portò avanti parallelamente l’attività di noleggiatore e quella di esercente: già proprietario del Centrale, egli partecipava alle società del cinematografo Parigino e del cinema-teatro Volta di Sampierdarena. Per il noleggio, costituì poi, nel giugno 1913, l’accomandita Stefano Pittaluga che partì con il modesto capitale do diecimila Lire, ma che già in settembre poteva aprire una succursale a Torino».
19 A. G. BRAGAGLIA, Stefano Pittaluga, “Cinema”, 31 gennaio 1953, n.102.
20 P. GERBALDO, La Fert: un esempio di casa di produzione cinematografica degli anni Venti.
21 A.R. CADES, Storia della Cines, “Cinema”, 25 aprile 1937, n.20.
22 G. GIANNINI, La funzione politica dell’Anonima Pittaluga nella cinematografia italiana, “Kines, VII, n.24, 9 luglio 1927
23 La rivista “Cine-fono” nel 1920 parla con toni allarmistici del costituendo trust pittalughiano.
24 G. GIANNINI, La funzione politica dell’Anonima Pittaluga nella cinematografia italiana.
25 Ibidem.
26 La Pittaluga era l’unica società, per disponibilità di capitali a poter effettuare la conversione.
27 L’arte italiana ed il cinema parlante nel parere di un competente. Intervista a Stefano Pittaluga, “Corriere della Sera”, 30 aprile 1929.
28 «Per intelligenza e per larghezza di vedute, Pittaluga fu certamente il maggiore industriale del cinema italiano. Fu il primo a varare un organismo industriale coalizzando produzione, noleggio ed esercizio in modo da poter assicurarsi il mercato». Si tratta del paragrafo conclusivo della scheda su Stefano Pittaluga redatta da Roberto Chiti e pubblicata su “Filmlexicon degli autori e delle opere”, ed. Bianco e Nero, 1962.
29 «Non sbagliava quasi mai, prevedendo l’accoglienza del proprio pubblico. e, badate, egli giudicava un film soltanto pensando al giudizio del pubblico grosso. Lui conosceva i suoi polli e forse per questo ci consigliava di non avvicinare gli umori della platea russa a quelli della nostrana. Nello spettacolo sono le tecniche che fanno le estetiche e, al cinema, il modo di porgere è tutto. Per questo vigevano – e vigono ancora – le lotte tra il direttore artistico e l’industriale, circa la manomissione del montaggio di un film da parte dell’impresario. E’ riconosciuto, infatti, che il montaggio è il fondamento del film e del diritto d’autore morale del direttore: esso può contenere il segreto del successo. Perciò i lavori dei comunisti vanno bene in certi paesi», A. G. Bragaglia, Stefano Pittaluga, “Cinema”, 31 gennaio 1953, n.102.
30 A. G. BRAGAGLIA, Stefano Pittaluga, “Cinema”, 31 gennaio 1953, n.102.
31 L. TOEPLITZ, op. cit., p. 94.
32 AMC, Fondo Pittaluga, Atti-Corrispondenza-Inventari, 1920-1934: Relazioni e bilanci della SASP (1923).
33 Si tratta di un’ipotesi formulata da Mariapia Comand e Luca Mazzei in Soggetti italiani, “Bianco e Nero”, fascicolo 557/58, gennaio-febbraio 2007.
34 «Niente confronti quindi da fare con la produzione straniera…senza far cenno delle possibilità di organizzazione. Perché la dove alla sceneggiatura di un soggetto concorrono dieci e più persone ciascuna con delle idee e con un’esperienza, e tutte stipendiate fisse a questo scopo, da noi quelle cifre che abbiamo riportato sopra non consentono che di affidare la sceneggiatura ad una, od al massimo a due persone, che non possono avere eccesso di esperienza perché questo lavoro lo compiono saltuariamente e con scarsa retribuzione. Il direttore artistico è una parte, in America, di un più vasto ingranaggio. Da noi deve far di tutto, dalla sceneggiatura del soggetto fino quasi a battere il ciak», A. PETRUCCI, Difesa del film italiano. L’articolo, senza data e indicazione della testata è stata reperito nell’Archivio del Museo del Cinema di Torino, Fondo Pittaluga 204/1 “Rassegna stampa di alcuni film 1931-1934”.
35 Giuseppe Barattolo era a capo del Gruppo Nazionale produttori film dell’Associazione nazionale fascista delle industrie dello spettacolo (Anfis). Gustavo Lombardo era titolare della Lombardo Film e della Titanus, l’avvocato De Pirro era il segretario generale dell’Anfis.
36 E’ questo il giudizio del regista Carlo Ludovico Bragaglia, in La città del cinema. Produzione e lavoro nel cinema italiano 1930/1970, Assessorato alla Cultura del Comune di Roma, p.107.
37 ASI-BCI, VCDA, Volume 17, 6 aprile 1932.
38 A.R. CADES, Storia della Cines, “Cinema”, n. 20, 25 aprile 1937.
Marina Nicoli, “Non arte ma scarpe”. Il cinema italiano tra economia e cultura nel primo novecento, Tesi di Dottorato, Università Commerciale “Luigi Bocconi” – Milano, Anno Accademico 2008-2009

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